
Ecco un post per chi dovrà affrontare, a breve, l’esame di Stato, sia esso quello di Terza Media o quello di Maturità (diciture che dovrebbero essere bandite ma che invece tutti, dal Ministro in giù, usano abitualmente!). L’intervento, a cura della poliedrica collega Simona Butò, è tratto dalla rivista di ricerca didattica MYTHOI – brevi ‘storie di quasi tutto’ (n.2 – 2021).
L’articolo, bellissimo, non necessita di altri commenti o lunghe presentazioni: spero potrà parlare a ogni lettore come ha parlato a me…
E allora… Buone narrazioni, buoni esami!
Andrea Macco
Raccontare destini
Simona Butò
Virginia Woolf scriveva che, in definitiva, ogni romanzo è una autobiografia. Che la voce sia un io oppure un tu, la storia che essa narra – in mille possibili timbri differenti – si risolve sempre nel racconto di un destino all’opera.
Esistono i programmi ministeriali, esistono gli argomenti trattati nelle singole classi, vi sono i percorsi che ogni docente ha immaginato e reso concreti per i suoi studenti.
Eppure, ogni esame è una risorsa, deve essere un’occasione di scoperta e di crescita. Sia per il docente che per lo studente.
Mi auguro, perciò, che gli esami di Stato che ci aspettano non si vestano soltanto da interminabili collegi docenti né si preparino a lasciarsi ricordare come sabbie mobili burocratiche dalle quali avremo imparato a districarci.
Mi piacerebbe che – in una sorta di tacito patto condiviso tra noi docenti scegliessimo di guardare alla moltitudine di elaborati che ci apprestiamo a concordare-suggerire-correggere-leggere-ascoltare come alle molteplici (ma, ciascuna, ‘unica’ perché unico è ognuno degli studenti che abbiamo davanti) possibilità di raccontare un destino.
Scrivere la storia della propria vita è quell’attività che ognuno di noi compie incessantemente, anche senza indossare l’abito del romanziere. La scriviamo mentre raccontiamo a noi stessi gli eventi di una giornata appena trascorsa, mentre
rimuginiamo su azioni ed eventi, mentre progettiamo ciò che deve ancora venire. E le parole che scegliamo, nel corso di questo racconto del quale spesso assistiamo in modo inconsapevole al dipanarsi, sono – come ci ricordano quelle lontane ἔπεα πτερόεντα – frecce alate. Volano e colpiscono in modo chirurgico: accurate e senza pietà.
Per questo, è fondamentale sceglierle bene.
Facciamo in modo che il singolo elaborato del singolo nostro studente diventi una narrazione, nella quale le parole e le immagini saranno state accuratamente scelte con lo scopo di dire il proprio destino in azione. Proponiamo temi che abbiamo la certezza – non li abbiamo forse accompagnati per tre/cinque anni? – possano essere declinati nelle loro vite particolari. In modo da poter dare l’occasione ad ognuno (anche allo studente ‘dalla webcam perennemente spenta’) di rileggere la manciata di anni che ha alle spalle alla luce di una grandezza che noi abbiamo portato davanti ai suoi occhi, durante le nostre lezioni e attraverso i compiti da noi assegnati.
Dimostriamo loro che la consapevolezza di chi siamo è il dono più grande che possiamo conquistare. Senza dimenticare che lo faremo sempre guardando negli occhi chi ci sta chiamando a farlo.
“L’identità è il destino che abbiamo alle spalle” scriveva M. Veneziani.
Se le nostre proposte di elaborato avranno questa, di tensione, al loro interno, sono certa che renderemo molti quattordicenni e diciannovenni fieri di ciò che avranno creato: un canovaccio di identità.
Per lasciarsi meravigliare…
“Tuche mi guardi, tuche mi racconti”, A. Cavarero, Feltrinelli, 1997
“How our lives become stories”, P.J.Eakin, Cornell University Press, 1999
Nota finale dell’autrice:
Nella scuola in cui (da venticinque anni) insegno, chiudiamo il momento del colloquio con il candidato con un gesto che ha la pretesa di sancire un ‘punto di non ritorno’: l’uscita dalla scuola secondaria di primo grado. In qualche minuto, il coordinatore racconta la storia di un triennio vissuto, alla stessa persona che lo ha vissuto e che ha appena concluso la sua prova. “Per tre anni ti abbiamo guardato, e adesso ti raccontiamo chi ti abbiamo visto diventare”. In un dispiegarsi di immagini narrate che svelano a chi ne fu protagonista un accenno del loro senso, sottolineando talenti e fornendo qualche spunto per smussare, nel prossimo futuro, qualche asperità di metodo. Chiudere in tal modo un colloquio di trenta (e più, spesso!) minuti, nel quale le esperienze, gli incontri con la realtà e la conoscenza sono stati oggetto di dialogo, ha qualcosa di… epico. E non di rado gli occhi di tutti si inumidiscono.