Riti, gesti scaramantici: c’è qualcosa di più nei leader

Avete mai visto la danza degli All-Blacks di Rugby? Credo di sì. Ormai è diventata famosissima. E’ senz’altro un rito, un modo per caricare la squadra, per darle unità, compattezza e un quid in più. Una specie di consapevolezza di essere “i migliori”.

E’ un po’ lo stesso meccanismo che avviene negli scontri epici, quando i comandanti delle battaglie, i leader, gli eroi che poi rivediamo anche nei film più famosi, pronunciano un discorso per “caricare” i propri uomini e far gonfiare i loro cuori… “Sia questo il momento in cui sguainiamo insieme le spade…” , “Facciamo risuonare il nostro corno in tutta la vallata…” , “Possa l’alba di questo giorno conoscere la nostra gloria…”

Ma torniamo al campo sportivo. A seguito della bella vittoria della Sampdoria in Coppa Uefa nella roccaforte di Belgrado (cliccare qui per tabellino e pagelle), ecco un articolo di Paolo Giampieri (il Secolo XIX) che rivela qualche retroscena e racconta di un Antonio Cassano nella veste di leader, vero leader.

Leggetevelo, è veramente bello e tutto da gustare.

Andrea Macco

 

QUELLI CHE VINCONO PRIMA DI INZIARE.

«Fu allora che “el Negro”, Obdulio Varela, si alzò dal suo posto…». La letteratura dei gesti di sfida clamorosi e vincenti non è molto abbondante. A raccontare la storia dell’uruguaiano Varela che, nel 1950, con il suo coraggio sconfisse il Brasile al Maracanà nella finale di Coppa del mondo, ha pensato la penna magica di Osvaldo Soriano; addirittura un video (consigliato a chi ama il calcio, la danza, il bello, http:// it.truveo.com/Maradona-riscaldamento-con-il-Napoli/id/964227603) ricorda quando Maradona iniziò a vincere la partita (e quindi la Coppa Uefa) sul campo dello Stoccarda; cronache di quotidiani sportivi riportarono la sana strafottenza di Pietro Vierchowod che, con la maglia della Sampdoria, prima dell’inizio della partita di Coppa dei Campioni, salutò la feroce curva della Stella Rossa, nella famosa battaglia di Sofia; il Cassano leader senza paura è storia dell’altro ieri.

Breve riassunto serbo. Lo stadio dei partigiani, annunciato caldo, è caldo davvero. Sono in trentamila a cantare; soprattutto, la curva è scatenata. Quando la Sampdoria scende in campo per il riscaldamento, i fischi diventano assordanti. Cassano viene fatto presto bersaglio: «Cassano vaffa…» e «Cassano figlio di…», italiano basico ma efficace. Sulle prime Fantantonio ha ignorato. Quindi, ha reagito. Sguardo rivolto verso la curva, fisso, sorriso appena abbozzato ma chiaro, una pettinata ai capelli. Il primo e più esplicito messaggio è chiaro: non mi fate paura, non mi intimorite per niente. Ma è più importante il secondo messaggio, sottinteso, e rivolto ai compagni: state tranquilli, seguitemi, tra poco si va in campo e staranno a vedere.

A Belgrado Cassano era capitano. Come Maradona a Stoccarda, come Varela al Maracanà. Quel 16 luglio del 1950 tutto il mondo aveva già dato per scontato l’esito di Brasile-Uruguay. Circa centocinquantamila persone affollavano l’enorme stadio, urlando la propria passione per i verdeoro che parevano proprio imbattibili. Negli spogliatoi, l’Uruguay si prepara alla gara con rassegnazione. I dirigenti della squadra hanno chiesto ai ragazzi di “perdere por cuatro goles, no mas”, quattro gol, non di più. I giocatori, anche il celebre Schiaffino, hanno gli occhi bassi. «E fu allora che “el Negro” si alzò dal suo posto…». Varela si alzò dal suo posto indossò la camiseta celeste che aderì perfettamente al torace e, all’altezza del cuore, apparì il sole uruguaiano con le due spighe. Poi prese la fascia e vi infilò dentro il braccio. Adesso era il capitano, e disse: «Quelli fuori non contano». L’Uruguay vinse la partita, passata alla storia come il “maracanazo”, per il Brasile fu quasi una tragedia. Obdulio Varela non si vantò mai di quanto fatto. Le poche volte che parlava di quello che era successo quel giorno, diceva: «Gli abbiamo rovinato la festa, non ne avevamo il diritto e, se rigiocassimo cento volte, perderemmo tutte e cento».

I tempi sono cambiati, la sfida dello zar, di Maradona e di Cassano oggi prende forma durante il riscaldamento. Diego entra sul prato di Stoccarda e iniziano a bombardarlo di fischi. Gli altoparlanti sparano “Life is life” degli Opus. Musica molto ritmata, fa al caso suo. Maradona inizia a ballare. Poi prende la palla e palleggia ballando: piede, coscia, testa, spalla, una roba incredibile, la palla non cade mai a terra. Il Pibe de Oro, che in quel periodo è pure un po’ sovrappeso, la ferma sul collo del piede, sulla testa. E danza, danza. Il rumore dei fischi scema, lo stadio si fa zitto, preoccupato, gli avversari lo guardano con la coda dell’occhio. Maradona ha già iniziato a vincere. Finirà 3-3, in virtù della vittoria dell’andata, per il Napoli sarà Coppa Uefa.

Perché il problema dei gesti di sfida è poi tradurli in vittoria. Maradona balla, ma se poi perde non fa una bella figura. Cassano lancia il guanto: nessuna paura di voi, tra poco mi vedrete (ci vedrete) giocare. Ma così si espone, si prende le responsabilità e pure rischi. Se sfidi, devi credere in te stesso e nei tuoi compagni. Perché anche Cassano lo sa, un uomo solo, anche un campione assoluto come lui, come Maradona, non è niente senza compagni. E i compagni, per essere squadra, devono sentire il senso di appartenenza, quello che Varela chiamava “hermanidad”. In un’azienda si direbbe coesione, condivisione. In una squadra di calcio sono sentimenti che passano attraverso la maglia. Il simbolo è la maglia che el capitan indossò nel 1950 davanti ai compagni di squadra. Che Cassano indica ai tifosi per dire che resta a Genova, che ai tifosi lancia dopo aver sfidato, e vinto, squadra e curva dei partigiani.

Paolo Giampieri (Da il Secolo XIX del 25 Ottobre 2008)