Dedico questa riflessione tratta dal Blog fratemobile.net dell’amico p.Beppe Giunti, a tutte quelle persone che lavorano in ospedale e centri vari di cura, che stanno a contatto giornalmente con anziani e malati. Insomma a tutti quelli che vivono un lavoro volto al servizio dell’altro.
Un pensiero anche a tutti quelli che, venendo dal mondo scout, portano impresse sopra il loro cuore le lettere di bronzo R-S. Questa riflessione ci possa ricordare il senso del nostro “Rendere Servizio” per il mondo e nel mondo.
Andrea
La pagina e’ di Frank Ostaseski, dal libro Saper accompagnare (Mondadori 2006, € 9.80, pag 37 segg).
“Troppo spesso quando si assiste una persona con un male incurabile non siamo pronti a capire cosa serve ma cerchiamo conferme alla nostra identità. Questo atteggiamento lo chiamo “la sindrome del soccorritore”, una patologia più diffusa dell’AIDS o del cancro. Mi riferisco alle varie strategie con cui cerchiamo di prendere le distanze dalla sofferenza dell’altro. Possiamo farlo con la pietà, con la paura, con il calore professionale, perfino con i nostri gesti caritatevoli. L’identificazione con il ruolo del soccorritore ha in molti casi radici antiche nella nostra storia personale. Se non facciamo attenzione, se non restiamo vigili, può diventare una prigione sia per noi sia per quelli che serviamo. A rigor di termini, un soccorritore prevede una persona inerme. Rachel Remen, autrice di Kitchen Table Wisdom (Ed. Penguin Putnam, New York 1996) dedica al tema alcune riflessioni che io considero tra le più belle definizioni del significato di servizio. Parafrasando le sue parole, servire non è la stessa cosa che aiutare. Aiutare implica una disuguaglianza, non prevede un rapporto alla pari. Quando si aiuta, si usa la propria forza a beneficio di qualcuno che ne ha meno. E’ un rapporto dove una delle parti è in una posizione svantaggiata, e dove la disuguaglianza è palpabile. Ponendoci nell’ottica dell’aiuto possiamo inavvertitamente sottrarre all’altro più di quanto gli diamo, indebolirne il senso di dignità e l’autostima. Quando aiuto, sono chiaramente cosciente della mia forza. Ma per servire dobbiamo mettere in gioco qualcosa di più della nostra forza. Dobbiamo mettere in gioco la totalità di noi stessi, attingere all’intera gamma delle nostre esperienze. Servono anche le nostre ferite, i nostri limiti, perfino i nostri lati oscuri. La nostra interezza serve l’interezza dell’altro e l’interezza della vita. Aiutare crea un debito. L’altro sente di doverci qualcosa. Il servizio, al contrario, è reciproco. Quando aiuto provo soddisfazione; quando servo provo gratitudine. Servire è inoltre diverso dal provvedere. Quando cerco di provvedere a qualcuno, vedo nell’altro qualcosa che non va. E’ un giudizio implicito, che mi separa dall’altro e crea una distanza. Direi quindi che, fondamentalmente, aiutare, provvedere e servire sono modi di vedere la vita. Quando aiutiamo, la vita ci appare debole. Quando cerchiamo di provvedere, ci sembra che abbia qualcosa che non va. Ma quando serviamo, la vita ci appare completa, e siamo consapevoli di fare da canale a qualcosa di più grande di noi.”
Dal Vangelo secondo Matteo cap. 20:[25] Gesù disse: <<I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. [26]Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, [27]e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; [28]appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti>>.
Dal Vangelo secondo Marco cap. 10 [42]Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: <<Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. [43]Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, [44]e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. [45]Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti>>.
“Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”: penso che questa enunciazione evangelica stia di fatto e non per insegnamento ricevuto,alla base della vita sociale umana, ancor prima della nascita di Cristo.E’ un comportamento naturale caratteristico della specie umana, proprio perchè l’uomo si identifica nell’altro in modo spontaneo,anche inconscio,proprio perchè è da lì che si insataura
la necessaria ed imprescindibile relazione tra le persone: nella collaborazione sul lavoro, nella politica,nella religione,nel semplice dialogo ecc. Tuttavia, e purtroppo, anche nel decidere l’azione deleteria come un furto, un omicidio, un suicidio,una percossa, una calunnia, un insulto ecc. siamo spinti,in questo casi deleteri per un’ errata interpretazione o per egoismo, sempre e comunque,avversandone il suo valore morale, dall’enunciazione evangelica di cui sopra.
L’aiuto: chi non sarebbe spinto a soccorrere, o a tentare di farlo, chi sta per soffocare? Chi sta congelando?Chi dorme in macchina, con i piedi fuori dal finestrino,per aver perso la casa?
L’aiuto uguale al servizio,a mio parere, non ha coincidenza concettuale: un infermiere svolge un servizio, l’agente di polizia anche, così come il militare, la badante, il domestico ecc. L’aiuto richiede una spinta emotiva interiore che non è pietà, o solo pietà,ma si basa proprio sulla predetta enunciazione evangelica che è già cosa intima che c’è istintivamente in ogni persona e,in misura minima,anche in alcuni animali: come nel loro istinto materno, per esempio.La differenza sostanziale sta nella capacità umana di comprendere il significato concreto e morale di ciò che è aiuto e di ciò che è servizio.
Caro Giuseppe, bella la tua riflessione!
Tuttavia c’è da dire che se in tutti c’è in potenza la capacità di fare il bene e operare il bene (questo spirito materno che tu ben delinei) è altresì vero che non tutti lo trasformano in atto. Anzi, c’è chi sceglie un comportamento opposto e chi addirittura si compiace del male che fa.
Trovo in questo senso illuminante il libro “Il Signore delle mosche” del Premio Nobel William Golding che mostra come – lontano da religione e morale – nell’uomo si riveli questa duplice realtà di bene e soprattutto di male.
Per un cristiano la risposta a questo male che c’è nel cuore dell’uomo è 1. la morte – come atto volontario di amore – di Cristo in Croce 2. la sua Risurrezione (sconfitta del peggiore dei mali) e 3. il dono dello Spirito Santo che offre all’uomo una più profonda e rinnovata capacità di amare.
Certo,caro Andrea,c’è anche l’enunciato antievangelico che è “fai agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, ma io,nel precedente commento, ho voluto essere “buono”, privilegiando l’aspetto positivo dell’uomo.
Se già ci hai fatto caso, quast’ultimo enunciato ha sempre alla base il senso di colpa: quando qualcuno ti danneggia, immediatamente, oltre a subire il danno diretto,subisci anche il senso di colpa, come tuo sentimento, che ti spinge istintivamente alla vendetta contro chi ti ha danneggiato, vendetta che diventa giustizia o punizione, solo se questa produce nel colpevole il senso di colpa e la consapevolezza di aver fatto del male ingiustamente, ovvero produce il suo pentimento che approda,sempre istintivamente, nel desiderio,anche inconscio, di non farlo più e di risarcirti, sentendo l’esigenza di essere da te perdonato.Tutto questo non accade mai negli animali…occorre essere uomini.
Tuttavia nei casi di psicosi (delirio) e nella psicopatologia (assenza di sentimento di moralità) il senso di colpa per il torto subito, od interpretato come tale,anche se di lieve entità,può essere vendicato in modo inadeguato, mediante l’omicidio o danneggiamento grave, provando soddisfazione o piacere.Lo stesso enunciato di cui sopra può essere messo in pratica non solo per malvagità, ma anche per legittima difesa,stando attenti a che sia veramente legittima (cosa spesso difficile da stabilire), come può essere una bastonata data in testa a chi sta per colpirti o una guerra combattuta contro uno stato aggressore.
Purtroppo c’è anche una giustizia di legge, che in realtà è solo “piacevole” vendetta, che scaturisce da un collettivo senso di colpa, come è nelle esecuzioni capitali,per esempio. Cosa si risolve uccidendo il colpevole? Nulla, perchè da morto, di sicuro non potrà mai approdare ad un’esistenza più giusta socialmente nè potrà mai risarcire il danno commesso. Come si può constatare, secondo me, il giusto enunciato evangelico “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” può essere efficace, soltanto se supportato da una robusta razionalità individuale e collettiva.
Un saluto.
Occorre aggiungere che chi danneggia persone o cose, solo per proprio vantaggio non neccessario o per solo piacere,secondo me, lo fa per un sentimento di colpa più o meno patologico (patologia misurata dalla cultura sociale del momento) quasi sempre inconscio, derivante da uno stato di sofferenza che può anche essere , da sola, quella tipica di ogni essere umano, cioè quella esistenziale, che ha in sè il malessere,più o meno sottile, dei prodromi fisiologici della morte che ci attende tutti (speriamo il più tardi possibile).